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settanta acrilico

trenta 

lana

Una scrittura che apre gorghi narrativi e si arroventa in pointes espressive di estro talentuoso. Lo stile di Viola Di Grado è dominato da un metaforeggiare rigoglioso e visionario. Opera una sorta di cortocircuito ghiribizzoso fra un andamento discorsivo sovraeccitato, ricco di virate timbriche e sussulti temporali, e un materiale malconcio e sbrindellato. Alla fine, in mezzo alle molteplici acrobazie metalinguistiche, metanarrative e pure metaiconiche, rifulge il gusto di andare a raccattare storie, perchè “Lo sai, piccola, le storie sono dappertutto” (pag. 74) e ci offrono l’unico argine per lenire il senso abissale di solitudine.

(da "Alte Tirature", Mondadori 2012)

La ventitreenne Viola Di Grado con Settanta acrilico trenta lana (e/o, pp. 191, € 16,00) ci dà una formidabile prova di scrittura: entro la rappresentazione di un mondo cupo e lacerato, tra malessere, degradazione, desiderio, rabbia verso il mondo che rovinosamente precipita. Il racconto è in bocca a una ragazza stralunata e un po' dark, chiusa dentro un proprio universo assurdamente circoscritto, dove si muove con una sorta di maniacale metodicità, come se ne avesse a priori misurato i limiti, sottoscrivendone le condizioni e impegnandosi eroicamente a non uscirne, pur tra prove di fuga, aspirazioni sempre rientrate a una improbabile felicità. Il mondo chiuso è quello di una città inglese che nei suoi tratti di squallore si presenta come un emblema della attuale condizione postindustriale (non nel senso di quell'uscita dal mondo industriale di cui blaterano i tardi apologeti del postmoderno, ma in quello del suo moltiplicarsi e sfaldarsi, del suo produrre scarti e residui, con invasione di stracciati simulacri). E non si tratta di una generica «città inglese», ma di una città vera e propria, Leeds, con i suoi luoghi senza qualità, negozi, parchi, caseggiati, strade, tutto precisamente identificato, come quella Christopher Road in cui all'inizio la protagonista-narratrice, l'italiana Camelia che vive lì da alcuni anni con la madre, dopo la morte del padre, che era venuto lì a fare il cronista, getta in un cassonetto una «nuovissima giacca fucsia». Ed è paradossale cominciare da lì, perché, come ci dice Camelia, «a Christopher Road non succede mai niente. Semmai finisce. Finisce tutto, anche le cose che non sono mai cominciate…». Per lungo tratto del romanzo questa Leeds appare bloccata in un perpetuo inverno, che Camelia registra con continui turbamenti della cronologia, che toccano sia la successione delle ore che quella dei giorni, con un calendario che sembra incepparsi nel passaggio tra il 2004 e il 2005: quando poi si affaccerà la primavera, sembrerà darsi come un sogno illusorio, che accende una speranza accettata contro voglia, che non può che negarsi e dissolversi. Se Camelia ha quel nome di fiore, che per noi può evocare perfino la lontanissima dame aux camélias, il suo mondo è invece quello degli scarti del consumo, dove sono perpetuamente in agguato oggetti rovinati, lacerati, desueti già prima di essere usati: e insistente è la sua lotta con i vestiti, che molto presto la porta a indossare abiti impropri, tagliati in modo irregolare, con improprie aperture, con buchi emancanze di pezzi (di cui si scoprirà a un certo punto l'origine). Ma oltre che dagli oggetti, e più che dagli oggetti, Camelia è ossessionata dal linguaggio, e non soltanto per la sua condizione di italiana che si trova immersa nell'universo anglofono (dove, dopo aver rinunciato all'università, tenta anche di guadagnare qualcosa traducendo in inglese istruzioni per lavatrici di una ditta italiana). Ella pensa che «sono le parole che sono contrarie alla vita, ti nascono in testa, te le coviin gola, e poi in un attimo ci spargi sopra la voce e le uccidi per sempre.


 

La lingua è un crematorio incosciente che vuole condividere e invece distrugge ». Cerca allora di bloccare le parole; e a questo del resto la spinge il comportamento della madre, che, caduta nella disperazione dopo la morte del marito (perito in un incidente mentre la tradiva con un'amante), ha come spento la propria voce di cantante lirica, smettendo completamente di parlare e giungendo a una degradazione estrema, oltre un mero stato vegetativo, comunicando con la figlia solo attraverso gli sguardi. Il linguaggio degli sguardi offre molteplici variazioni nel corso del romanzo: ma presto a esso si sovrappone il linguaggio degli ideogrammi cinesi, che Camelia apprende frequentando un ragazzo cinese, che gestisce un negozio di vestiti, Wen, di cui si innamora (o crede di innamorarsi). Viola Di Grado (competente e studiosa di lingue orientali), nel seguire lo studio che con Wen Camelia viene a fare del cinese, offre un vario, estroso e deformante gioco con gli ideogrammi, con la loro evidenza visiva, come cercando nella materialità del linguaggio, nella sua sostanza oggettuale, non meramente fonetica, una sorta di farmaco o antidoto all'incontrollabilità del mondo, al perpetuo degradarsi delle cose e delle vite («Gli ideogrammi che io non significo nullama loro invece sono unità significanti, come diavolo si dice, morfosillabici»). Nella gestione quotidiana della casa dove vive, Camelia si trova a fare un uso incongruo non solo dei vestiti e del linguaggio, ma dei vari oggetti e utensili domestici; e si accanisce contro la natura che ostenta bellezza, cospirando contro la bruttezza, tanto viva nell'accumulo di oggetti artificiali, nella vita di tanti esseri umani. Di questa sua rabbia contro la bellezza sono vittime proprio i fiori, che ella strazia e violenta appena le capitano sotto tiro: «Se non fai attenzione camminando verso il centro ti ritrovi circondato da un'orgia di fiori gialli, e allora che puoi fare se non distruggerli, io li ammazzavo a uno a uno, li strozzavo con orgoglio necrofilo dentro la borsa». Così se la prende con una «petunia terminale» che ha sfiorato una sua gamba: «c'è un buco che ti aspetta, lì dentro ci pisciano i cani e ci scopano gli uomini, e poi muoiono tutti, uomini e cani, tutti insieme, anche se hanno cercato di chiudere il buco col cemento, e tu cosa credi, stupida, che la tua bellezza ti salverà?». Dai buchi, dalle fessure in cui le cose e le vite possono confluire, precipitare, perdersi, Camelia è ossessionata, come lo è la madre, che con una Polaroid fotografa buchi di ogni sorta, con inquietante sistematicità. In un filo continuo il romanzo lega le ossessioni molteplici che costituiscono il personaggio di Camelia, il mondo di cui ella è prigioniera, le strade ingannevoli attraverso cui prova a uscirne: con un coerente sviluppo di figure che ritornano, con una disponibilità a far passare il linguaggio dal più disinvolto livello colloquiale (che segue anche i correnti modi «giovanili ») agli scatti più rabbiosi, alle più concentrate e penetranti fissazioni di figure, di gesti, di ambienti, fino a certe amare formule morali, quasi di sapore classico, in cui la solitudine della protagonista si proietta sullo sfondo dell'indifferente incoscienza collettiva (ad esempio: «Si chiama vita il gioco che fanno tutti gli esseri umani senza di me»; «Il rumore della tempesta, quello dei binari, quello degli esseri umani che parlano, come se non ci fosse abbastanza rumore, ecco cosa siamo, rumore che si aggiunge al rumore»). Con ostinata intensità la giovane autrice sa immergersi e immergerci in questo universo fatto di scarti, di falle, di residui, dove anche ciò che, come àncora di salvezza, sembra venire da lontano (qui soprattutto il gioco col linguaggio e il fascino della lingua cinese con i suoi ideogrammi) non garantisce redenzioni,ma resta preso nell'imperante e rumoroso artificio, nella neutra e ostile indifferenza di quel tessuto (tanto essenziale è qui la deformazione dei vestiti!), settanta acrilico trenta lana"

​Giulio Ferroni
Testata: Il Manifesto
Data: 27 marzo 2011

cuore cavo

L’elemento più notevole in Cuore cavo, secondo romanzo di Viola Di Grado (venticinque anni, un fortunato esordio nel 2011 con Settanta acrilico trenta lana), è la tensione perfettamente gestita tra un immaginario tutto improntato al più suntuoso barocco mortuario, e uno stile svelto, scorciato, senza snodature sintattiche e forzature semantiche evidenti. Semmai una serie di continui, sottili smottamenti anaforici che decompongono impercettibilmente il significato più consueto dei termini, come in questo agile passaggio: «Si mettono la crema sul corpo e il cuore in pace», dove un gran numero di immagini, pensieri, giudizi e implicazioni emotive sono presi insieme in un breve giro di alta densità aforistica. Capita spesso con gli scrittori siciliani, più magri che grassi (Lampedusa a parte, inventore della dicotomia), disseccati nella forma quanto più torbidi e sensuosi nella sostanza. «Io m’aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che tu hai accumulato. E questo potrà difficilmente prodursi senza una esplosione formale, della tua levigatezza compositiva», scrisse una volta a Sciascia Italo Calvino. Sciascia non seguì mai il consiglio. E alla secchezza si attiene anche Viola Di Grado, come chi voglia appunto non far esplodere ma contenere, raffreddare, araldicamente incastonare un eccesso.

Mortuario, decompongono e raffreddare non sono espressioni scelte a caso; discendono dal tema. Cuore cavo è il racconto di una morta, Dorotea Giglio, venticinquenne suicida per taglio delle vene il 23 luglio del 2011; ed è il racconto di cosa accade non prima — salvo qualche flashback — ma dopo la sua morte. Il romanzo si apre nella speranza che con sé finisca anche il mondo: «Una brezza leggera si è alzata come un sollievo, e lamia morte, solitaria e profonda, ha lasciato l’isola. Da quel giorno, in silenzio, ha contagiato il resto del pianeta, lenta come lo smog, solenne come un vuoto, privata come una preghiera, diventando presto uno dei fenomeni ambientali più urgenti e più invisibili». Ma non è così che funziona. Il mondo sopravvive. E anche chi è morto non cessa di sentire, né di soffrire. Si sdoppia in un corpo che si decompone — processo le cui fasi Dorotea, ex studentessa di biologia, descrive con uno strano misto di tenerezza e di meticolosità nomenclatoria da coroner— e in un animo che continua indisturbato a frequentare i luoghi e le persone di prima: la madre depressa, la zia Clara, legate dal lutto per la terza sorella, Lidia, altra suicida. L’ex fidanzato, il negozio di cartoleria dove lavorava da viva, una Catania afosa e livida ma tollerante nei confronti delle schiere di morti che la percorrono. Dorotea non è un’eccezione, i morti si cercano, si frequentano tra loro. Scrive, riflette, si innamora, prende l’aereo e va a Londra con l’amica più cara a sentire un concerto di Amy Winehouse, morta anche lei il 23 luglio del 2011, una scena bellissima. I vivi però non possono in genere né vederla né toccarla, e questo è il contrappasso più crudele per chi si è ucciso sentendosi ignorata, in vita, dalla madre e da tutti. Tra vita e morte non c’è differenza, solo un giro di vite di tristezza, il rimpianto per qualcosa che non era da rimpiangere, l’alternativa tra lo spreco e l’inutile.

Senza più i vincoli del corpo, i morti soffrono di un eccesso di libertà in cui il tutto coincide con il nulla. «La realtà era una belva estinta, e potevo darle i nomi che volevo. Ma i nomi servivano a poco, senza più i sensi per chiamarla a me». Singolare sovrapposizione tra una tematica di marca schiettamente adolescenziale (nichilismo, narcisismo, autolesionismo, il tutto elevato a dimensioni cosmiche) e un’acuta consapevolezza della natura della finzione letteraria. Ammirevole e raggelante.

Cuore cavo si legge con stupore, non con abbandono, e non per qualche difetto ma per un trionfo di fattura. A me ha ricordato la crudeltà che il giovanissimo Flaubert esercita su se stesso nelle Memorie di un pazzo: rigore d’artista e rigor mortis, la sfida accettata della monotonia, l’introspezione come necrofilia, la maledizione su ogni forma di vita che non diventa scrittura.

Gli scrittori che non credono nella vita sono obbligati a essere perfetti: o dar fuoco alle polveri, o ricoprire la polvere con l’oro dello stile, rinunciando al calore. Viola Di Grado, che per designare l’insorgere di una speranza pesca splendidamente un termine come «imboscata», lo sa fin troppo bene, e corre con coraggio il proprio rischio. Per scelta, forse; o più probabilmente per vocazione.

Daniele Giglioli, Corriere della Sera

Una stupefacente mappa geografica della morte: una mappa slabbrata (com'erano slabbrati gli abiti di Camelia) nel tempo e nello spazio; una mappa che è un corpo allo specchio, che contempla le proprie lacerazioni (come, ancora, gli abiti di Camelia: ma qui è tutto diverso, il cataclisma è davvero universale, perché "minuscolo e irripetibile"). L'esplorazione di questa mappa potrebbe durare all'infinito, perché di fronte al proprio corpo in disfacimento, sospesi in un limbo in cui il ricordo è un privilegio, il desiderio è una condanna e la comunicabilità è sempre destinata a fallire, la parola è l'unico viatico che possa garantire un conforto, un movimento.

Laura Ingallinella,

Critica Letteraria

bambini di ferro

鉄の子供

Avverto ormai una tale debolezza e una così pallida infiorescenza nella percezione generalizzata dei testi, e di riflesso, da quanto vedo, nella produzione stessa dei testi e non solo in lingua italiana, che mi azzardo sempre più raramente a parlarne, a indicare: mi sembra che la testualità abbia assunto i caratteri di un lavoro sempre più intimo e sempre più profetico, se profeta è colui o colei che urla vanamente nel deserto. Mi accartoccio pensando i testi miei, ravvedendo problemi mai sperimentati prima da me, quanto a mimesi e lavoro attorno a un mito centrale, al simbolico, che in questo passaggio mi pare sfumato, non esserci più. Però sono felicemente costretto a dire dei “Bambini di ferro” di Viola Di Grado (La nave di Teseo, euro 18), che sto leggendo. Un tempo, nemmeno tanto lontano, che però è anche questo tempo, si consumava l’abitudine a ricondurre a generi le scritture, forse per stare tranquilli, per indicare una tassonomia che non esponesse al grado zero a cui le scritture felici (che sono latrici di grande infelicità) costringono il giudizio, mettendo a dura prova l’egoità di chi legge, dopo avere infranto quella di chi scrive. A quei tempi si sarebbe detto anzitutto che il romanzo (già una tassonomia di genere…) di Viola Di Grado è una distopia: si sta in un’era imprecisa, comunque futura, ibridi e umani biologici fanno comunità distaccate ontologicamente. Su questo assunto, il distacco tra biologico e artificiale nel cuore dell’umano, la scrittrice gioca una partita letteraria antica, perché mostra come la continuità sia garantita dall’unico mito che attraversa intatto i tempi, non appartenendo ai tempi, ma crollando in essi, in forme non necessariamente distinte: è la narrazione metafisica, che esplode nelle saghe mitologiche o in forma malcerta di religiosità. E’ invece la sostanza del tutto, del tempo e dello spazio, la autentica sostanza animica, che si incarna o si materializza, nell’illusione di mondo in cui siamo o in cui sono, per esempio, i personaggi di questo libro inclassificabile e mutageno, sorretto da una scrittura all’apparenza pulita e nitida, increspata via via dalle scosse di una lingua sorprendente, anzitutto nell’aggettivazione o nelle diversioni lessicali (“la testa bianco neon”, “torte gigantesche di saccarosio e gelatina di maiale”, “guasto sostanziale”…). Connettendo la grande narrazione mitica, una sorta di anti-“Siddharta”, a un futuro percepito come variazione possibile dell’età del ferro (o Kali Yuga), Di Grado opera uno spostamento macroscopico, ambientando le vicende non in un Oriente, ma in più Orienti: fa culminare la sua scrittura, da principio, in un esotismo che è l’apice dell’alienazione per il lettore: qualcosa che riconosce e di cui però non ha piena esperienza. Si intrecciano kafkismi, cioè inorganicità che parlano e sentono o non sentono o sentono in modo altro, senza precipitare nel buio del più antico dei giorni, ma nella luce artificiale di un presente che non si sa più nemmeno se è storico. Vibra ovunque la tensione alla visione, non nel senso che il fatto linguistico sia secondario, bensì nella consapevolezza che la comunicazione letteraria è una forma offuscata di telepatia concreta, più pesante dell’assetto istantaneo che assume la telepatia negli studi neuroscientifici attuali. Lo strenuo attaccamento alla forma umana è dato dalla persistenza dell’emotivo, del desiderio di essere amati (amate) e di amare, ma siamo un passo prima di una vicenda che probabilmente preme alle porte cerebrali e destinali della scrittrice Viola Di Grado: una narrazione di consapevolezza pura, vuota nel senso dell’avvertimento della pura “possibilità di”. Non è un caso che sia la forma ultima e primaria a essere messa sotto la lente della continua progressione a cui lo sguardo si sottopone narrando: è la maternità e l’infinitudine dei surrogati e il ritorno a una maternità cosmica. E non è forse un caso o un’immagine tra le altre quella per cui Di Grado sceglie un mutismo selettivo, ai limiti dell’assolutezza: si è muti ma si vive e si causano storie e spostamenti, e si sceglie o si è scelti quanto agli interlocutori: sembra un bilancio dinamico e in divenire della potenza e delle funzioni della scrittura stessa. Regesto accusatorio sull’andamento ciclico dei tempi universali, urlo disperato contro e dentro la decadenza e la metallizzazione di un’epoca di svolta e passaggio che stiamo vivendo, questa narrativa è proprio all’altezza dei tempi e, per quanto mi pare, tra l’istituto Gokuraku e quell’orfano universale che è Buddha Sakyamuni, uno dei pochi rimbalzi possibili, capaci di creare l’arco voltaico tra immagine e parola, tra storia e assenza di storia, tra adulto e bambino, tra danno e riparazione dello stesso, tra ragionamento sull’umano e il suo possibile e probabile trascendimento, tra lirico e ciò che una volta fu l’epico, tra narrazione laica e storia sacra.

Giuseppe Genna, giugenna.com

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